Giusto una sorta di di sibilo, o meglio di gloglottio, dato che la guancia gli si gonfia e gli si sgonfia in modo grottesco. Sembra un bambino che cerchi di fumare la pipa.
Qualche paziente sta seduto su una sedia con un’immobilità impressionante. Altri fumano la pipa in silenzio limitandosi a guardare fisso davanti a sé.
Sua moglie continua a vivere nello stesso appartamento, dove niente è cambiato, dove ogni libro, ogni oggetto è rimasto allo stesso posto, compresa la pipa che lei gli caricava e gli accendeva.
Continua a guardare Josefa, stregato da quella mano che, nell’innocenza del sonno, lei preme sul sesso. Pensa a diverse cose insieme, a Josefa, alle donne in generale, a Lina, al ragazzo di Fécamp che, a sedici anni, comprava la sua prima pipa, non tanto per darsi un tono disinvolto quanto perché essa rappresentava per lui un simbolo.
Ogni mattina, con le mani in tasca e la pipa tra i denti, avrebbe raggiunto la redazione e si sarebbe seduto alla sua scrivania, soddisfatto di sé, del suo lavoro, in pace con il mondo.
“Con questo cappellano non c’è pericolo…Viene solo se lo si chiama, con la sua grossa pipa in bocca che lo fa assomigliare ai vecchietti dell’ospizio…”.
Ma non ce l’ha con lei, anzi con lei è più indulgente che con chiunque altro, e si domanda a che cosa stia pensando la signorina Blanche mentre, immobile, guarda dalla finestra i vecchi malati cronici che passeggiano al sole a gruppetti fumando la pipa o se ne stanno seduti sulle panchine.
Poi, dopo una breve riflessione, aggiungerà, con un leggero sorriso sulle labbra: “Pipa”.
Molti fumano la pipa, come i vecchi pescatori di Fécamp che passano la giornata a guardare il porto, e spesso sono pipe riparate con il fil di ferro o il nastro isolante e che a ogni tirata fanno sentire un gloglottio di saliva.
“Lei ha mai fumato?”.
“Sì”.
“Sigarette?”.
“Prima la pipa, a sedici anni…Poi, a Parigi, sigarette…E alla fine tutt’e due…Ho smesso tre anni fa, quando si è cominciato a parlare di cancro ai polmoni…”.
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